IL SANGUE DEGLI INNOCENTI : L'UCCISIONE DI ALESSANDRO CORRADI
Gli archivi giudiziari sono una fonte preziosa per la
storia e in particolare per la storia contemporanea. Il loro destino però è
quello di essere poco o affatto utilizzati, sia per esplorare nuovi campi di
ricerca sia per verificare interpretazioni e giudizi provenienti da fonti
diverse. Il caso della storiografia resistenziale in Umbria è emblematico,
perché, salvo pochi casi isolati, essa ha ignorato l’esistenza delle carte
processuali conservate negli archivi dei Tribunali di Perugia, Terni, Spoleto, e
da questi in gran parte versate negli Archivi di Stato competenti. Ha perso
così l’occasione di ampliare l’orizzonte conoscitivo e di confrontarsi con i
giudizi della magistratura penale, che contengono molti elementi nuovi e
interessanti sulla scorta della ricca documentazione attinta in sede
investigativa, istruttoria e dibattimentale.
Accade pertanto
che gli storici ignorino le conclusioni dei giudici, che spesso smentiscono
clamorosamente le dichiarazioni dei protagonisti, le versioni di parte, le
notizie giornalistiche, i luoghi comuni ecc., lasciando che la moneta cattiva
scacci quella buona. E’ il caso, dello “storico” Sergio Bovini che pubblica,
insieme a tanti altri documenti di dubbio valore, l’Elenco delle azioni
compiute dalla banda “Gramsci” nel libro L’Umbria nella Resistenza[1],
senza considerare gli atti giudiziari (e non solo), dando per certo che le
vittime dei partigiani fossero “spie segrete dell’UPI” (Ufficio Politico
Investigativo) e ignorando che accuse infamanti come questa caddero nel corso
dei processi agli autori dei delitti. L’abbiamo visto a proposito di Maceo
Carloni[2], lo
vedremo ora nel caso di Alessandro Corradi. La circostanza è aggravata dal
fatto che i libri hanno una divulgazione più o meno ampia e fanno opinione,
mentre le sentenze dei Tribunali varcano appena la cerchia privata.
Accade anche
che gli storici siano trascinati davanti ai giudici a rispondere di calunnie e
falsità, per aver messo in circolazione accuse dettate da spirito di parte e
smentite dalle sentenze dei Tribunali, di cui non hanno tenuto conto. Si dà
l’assurdo di giudici che si sostituiscono agli storici e addirittura li
richiamano al loro dovere (vd. Tribunale di Perugia: processo (1978-79) a
carico di Sergio Bovini, curatore dei volumi L’Umbria nella Resistenza,
e processo (1995-97) a carico di Giuseppe Gubitosi, curatore del Diario di
Alfredo Filipponi), con l’effetto di gettare discredito sulla cultura storica.
Si verifica una sorta di inversione dei ruoli: non sono gli storici che si
occupano dei procedimenti giudiziari, ma sono i giudici che si occupano del
lavoro degli storici.
Volendo
rimettere le cose al loro posto, occorre restituire alla storia la sua
funzione, senza confondere la sentenza penale con il giudizio storico.
Il
giudice ha il compito di controllare la conformità dell’azione alla legge, lo
storico deve andare oltre e considerare i fatti nel loro contesto e nella rete
delle relazioni, per comprendere come sono andate effettivamente le cose. L’uno
ha il dovere di giudicare nell’immediatezza e nel contingente, l’altro di
storicizzare levandosi al tramonto, come la nottola di Minerva,
quando il ciclo degli eventi si è concluso, compresi gli eventi giudiziari.
L’uno considera il particolare con le categorie giuridiche, l’altro
l’universale con le categorie dell’etica e della politica. Entrambi hanno a che
fare con il negativo, il male, la violenza; entrambi indagano, interrogano i
testimoni (tali sono anche i documenti storici); entrambi giudicano per educare
e redimere; ma sono da sempre separati perché il diritto guarda alla formalità
della legge, mentre la storia alla sostanza che è vita.
Vincenzo Pirro
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